La parola d’ordine della post modernità è Valutazione delle performance. Lo vediamo nelle scuole, al lavoro, all’interno delle nostre case.
Siamo la società della performance dove tutto, persino le nostre fragilità, sono valutate da algoritmi. Siamo solo competenze calcolabili sin da piccoli. Ogni giorno siamo valutati con un numero che definisce la nostra performance. Da qui l’urgenza di essere sempre più performanti come se la nostra sostanza dipendesse unicamente da una valutazione.
Stiamo assistendo a un’accelerazione brutale di questa modalità di esistere dove l’essere diventa sempre più “funzionante” e meno “esistente”.
Il giudizio degli altri diventa dunque essenziale per darci una parvenza di sostanza. Sin da bambini si è valutati in rapporto all’utilità per produrre. La valutazione diventa inevitabilmente l’unica ragione di essere. In una società popolata di esseri funzionanti, dove l’attribuzione di giudizi, più o meno sensati, prevale sulla valorizzazione dei percorsi individuali, si è completamente perso il diritto di sentirsi fragili, dimostrare le proprie emozioni. La valutazione puramente numerica non può tenere conto del contesto: o si è performanti o non si esiste.
Ma solo una valutazione ben spiegata può aiutare il bambino, l’adulto a confrontarsi con i suoi limiti.
Oggi funzionare è più importante che esistere, lo spiega Benasayag, filosofo e psicoanalista argentino, nel suo libro “Funzionare o esistere?” (Ed. Vita e Pensiero, 2019). L’accento sul funzionamento tipico della nostra epoca ha portato a un cambiamento radicale della vita e di come “io mi vedo”. In questo panorama distopico, quasi fantascientifico, emerge una visione dell’essere umano incapace di pensare e riflettere, un uomo indebolito e impreparato ad affrontare la complessità.
Gli adulti non hanno idea di cosa possono essere, i giovani non hanno più il diritto di essere giovani, inseriti da subito nella giostra delle competenze da acquisire, dei risultati da conseguire, con l’imperativo di essere imprenditori di se stessi.
Ma oggi i giovani gridano a gran voce “noi vogliamo vivere” e, per contro, il mondo degli adulti impedisce questo desiderio. C’è di fondo la paura, da parte degli adulti/genitori, di non essere capaci di riformulare ai propri figli/ai giovani la promessa di un futuro tranquillizzante. Perché purtroppo non esiste un altro futuro se non il futuro attuale che ci riempie di paura e angoscia, immobilizzandoci e lasciando che gli algoritmi guidino la nostra vita.
Oggi essere genitori, educatori, psicologi, pedagogisti è una grande sfida. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che c’è il buio affrontandolo rimanendo in piedi e proteggendo i nostri giovani. Per fare questo c’è bisogno di un’etica concreta, di non cedere alla paura. In un’epoca dove il tempo della cultura, il tempo biologico sono ormai allineati al tempo macchina dobbiamo imparare a dire ai nostri figli “prendetevi il vostro tempo”. Il tempo di apprendere, il tempo di essere felici, il tempo di avere paura, il tempo per ridisegnare un futuro che sia sempre meno un risultato e sempre più un percorso.
Solo accettando di andare al di là del semplice ‘funzionamento’ della macchina e riguadagnando invece la complessità piena di senso dell’umano, si può guardare la fragilità del corpo e delle emozioni come ricchezza della relazione con gli altri (M. Benayasang).
Annalisa Colombo