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Lavorare con i piccoli. Quando, oltre che crescere, ti viene chiesto di tornare bambino

Lavorare con i bambini piccoli è speciale, ma difficile. Nicoletta Cinotti, analizzando alcune fatiche (lo stress del tempo, i pianti, l'andare d'accordo, il salutare i bambini dopo 3 anni...) ci propone alcune riflessioni e suggerimenti su come vivere con consapevolezza e benessere una professione che fa continuamente crescere.

05.02.2019

Lavorare con i piccoli. Quando, oltre che crescere, ti viene chiesto di tornare bambino - Immagine: 1
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La mattina tutti di corsa al lavoro: lavori complicati o semplici, ma tutti fatti con la richiesta di essere adulti e di prendersi delle vere responsabilità. Tutti tranne uno: l'educatrice di asilo nido (o l'insegnante di scuola dell'infanzia). Che deve prendersi tante responsabilità da adulto e, in più e contemporaneamente, essere bambino. E' questo che rende questo lavoro davvero speciale e davvero difficile.

Molti bambini iniziano a frequentare il nido piccolissimi: quasi tre anni passati insieme, che raccontano le tappe più importanti della vita di ognuno di noi. I primi passi e le prime parole. Non è insolito che gli educatori diventino persone dell'università familiare e affettivo dei genitori. Proprio per questo si tende a sottovalutare il particolare tipo di stress al quale sono sottoposti. Si ritiene che sia un lavoro naturale - perché si tratta di allevare dei bambini - ma nessuna madre si trova ad averne così tanti!


Lo stress del tempo

Il primo elemento di stress specifico può essere quello del tempo. I bambini costringono a rallentare. Per loro le azioni si svolgono a un ritmo diverso che per noi adulti. Non amano essere toccati frettolosamente e un cambio di pannolino troppo veloce può diventare una crisi di pianto.

Nello stesso tempo i neonati e in genere i bambini nei primi tre anni di vita hanno una scarsa tolleranza alla frustrazione. Se hanno bisogno di qualcosa, ne hanno bisogno subito.

Così un educatore si trova a essere continuamente richiamato da due tempi diversi: lento e affrettato. È come guidare una macchina, accelerando e rallentando continuamente: può venire il mal d’auto!

Cosa possiamo fare? La prima cosa è gustare i momenti di lentezza. Quando la situazione è calma e giochiamo con i bambini, viene aumentata la stimolazione del circuito ossitocinergico (parola strana che significa che aumenta la nostra produzione di ossitocina, il neuro-mediatore della calma e delle relazioni sociali pacifiche). Così è bene gustare pienamente la lentezza che arriva dal contatto fisico, dal gioco, dallo scambio di sguardi. Fa bene agli educatori come ai genitori. E un “bagno di ossitocina al giorno” renderebbe tutti più gentili.

Il punto interessante è cosa fare quando invece arriva l’urgenza? 

La nostra tendenza, tanto più il bambino è piccolo, è quella di correre a consolare. Umano, ma dobbiamo ricordarci che le capacità di autoregolazione e auto-consolazione sono importanti fattori nella crescita di un bambino. E ogni bambino è suscettibile a fonti di consolazione diverse. La prima cosa da fare è richiamare la sua attenzione con una voce dolce e gentile. A volte questo è sufficiente per calmarlo. Se non funziona (prova a contare da 10 a 20 secondi per dare al bambino il tempo di registrare lo stimolo), è necessario avvicinarsi e stabilire un contatto visivo e non ancora fisico. Ci sono bambini che hanno bisogno di vedere che non sono soli per calmarsi. Per un bambino piccolo il campo visivo è limitato dalla ridotta capacità di movimento, entrare nel suo campo visivo può essere sufficiente. Non si tratta ancora di prenderlo in braccio, ma di essere in contatto con lo sguardo.

Se anche questo non funziona (aspetta, contando fino a 10) prendi le mani del bambino e fai un piccolo abbraccio con le sue braccia cullandolo. Anche qui, aspetta qualche secondo per vedere se funziona. E, infine, se nemmeno questo ha funzionato lo prendi in braccio cullandolo. In tutto sono passati 40/50 secondi. Un tempo piccolo che ha dato però a lui/lei la possibilità di sperimentare diverse possibilità di consolazione e a te il tempo per sintonizzarti con te e con lui e scoprire quale sistema funziona meglio con quello specifico bambino. Non è esattamente vero che tutti i bambini vogliono essere subito presi in braccio. Ci sono molti bambini sensibili al suono e al contatto visivo e imparare qual è il sistema più efficace per calmarli è un aiuto per tutti.


Il suono del bisogno
Il pianto è anche una specifica ragione di stress per le educatrici: il pianto richiama l’attenzione sul bisogno. Prima di tutto del bambino ma, se prolungato, diventa un modo per risvegliare anche il nostro bisogno. Ecco perché, anche per gli adulti, è importante trovare dei modi per consolarsi. Una parte di consolazione viene dall’affiatamento con l’educatore con cui si condivide il turno. Un’altra forma di consolazione viene dall’équipe complessiva, ma non possiamo dimenticare che i bisogni che il pianto dei bambini risveglia sono bisogni profondi. E per ognuno di noi hanno radici diverse.Andare d’accordo
Fino a non molto tempo fa, nel campo della psicologia dello sviluppo è stata data attenzione prevalente agli aspetti di sintonizzazione (o attunement) nella relazione con i bambini. La sintonia è uno stato di accordo in cui si sperimenta l’essere nella stessa posizione: gioia con gioia, piacere con piacere. Sapersi sintonizzare con le emozioni e i bisogni dei bambini è importante, ma non è l’unico aspetto. Nell’area dell’infant research autori come Tronick sottolineano un altro aspetto, ossia l’importanza della facilità con cui viene riparato un errore o una tensione relazionale. Edward Tronick ha condotto ricerche utilizzando il paradigma sperimentale del Volto Immobile (Still Face), una situazione sperimentale in cui bambini di 4 mesi venivano coinvolti in una interazione di gioco con la madre e poi, a richiesta della sperimentatore, la madre smetteva improvvisamente di giocare e di rispondere ai segnali del bambino. La reazione del bambino spesso era di agitazione e disagio. Ma la cosa importante non era tanto quanto intenso fosse il disagio che il bambino mostrava nella fase di assenza di gioco, quanto la semplicità e facilità con cui si consolava dopo. I ricercatori ritengono che in una sana relazione madre-bambino, cioè in una situazione di attaccamento sicuro, l’80% del tempo è passato “fuori sintonia” nella ricerca di un accordo. Quella ricerca di un accordo è importante perché permette la reciproca conoscenza. 
Quest’informazione vale anche per gli educatori di asilo nido. Non devono essere sempre in sintonia, ma piuttosto essere consapevoli della qualità unica di ogni relazione e dell’effetto – altrettanto unico – che ogni bambino ha su di loro. Questo riduce lo stress che ci porta a credere che essere un buon educatore significhi saper consolare subito e perfettamente ogni bambino. 
In realtà è facile consolare i bambini - dal ciuccio a una rapida gratificazione come il cibo o altro - ma noi vogliamo stabilire una relazione e aiutare i bambini a sviluppare l’importante capacità di autoregolazione, una capacità connessa al tollerare la frustrazione. Infatti, non vogliamo bambini addomesticati, ma bambini felici!


Un continuo invito a crescere
Se lavoriamo in un ufficio possiamo essere coinvolti in aspetti ripetitivi. Se siamo in una relazione gli aspetti ripetitivi sono pochi. Perché l’umore cambia di giorno in giorno e i bambini crescono di giorno in giorno. Così questo è davvero una continua sfida per chi lavora in un nido. Bella, affascinante e trasformatrice.
Le relazioni ci invitano a cambiare: quelle con i bambini lo fanno ancora di più perché ogni bambino risveglia qualche parte di noi che non è cresciuta e, nello stesso tempo, risveglia la crescita della nostra parte adulta.
Riconoscere gli insegnamenti che i bambini ci danno non è facile. Sembra assodato che i rapporti con i più piccoli debbano vivere in una struttura gerarchica: uno dei due è più debole dell’altro, spesso il più ‘piccolo’ fisicamente. E questo spesso mette in gioco emozioni legate al potere e al controllo. Ma in un vero scambio, in cui si possa crescere, il potere e il controllo c’entrano poco. Questo non significa che non bisogna dare “struttura” ai bambini, ma è necessario andare oltre il nostro senso di superiorità, come quando si scende in basso e ci si accuccia per parlare meglio con un bambino. Se chi entra in ufficio si “mette la giacca”, chi lavora al nido fa un gesto bellissimo e fondamentale: si toglie la giacca, si toglie le maschere perché, con le maschere, non si può stare di fronte a un bambino. È questa caratteristica unica, meravigliosa e sfidante, che ci fa crescere.
Sentirsi superiori significa anche pretendere di sapere cosa è giusto per noi e per i bambini.Arrivare e partire
Ci sono due momenti particolari ripetuti ogni giorno all’arrivo, alla mattina e all’uscita. Spesso incontro per strada bambini sospesi nel sonno, spinti velocemente nel passeggino da genitori che stanno per correre a lavoro. L’altra mattina ho visto un bambino, di 8-9 mesi, con un braccio sospeso come un astronauta (e vestito come un astronauta) rimanere nella stessa posizione per tutto il tratto di strada in cui ho potuto osservarlo. Era tenero e perplesso: sembrava non sapere se fosse sveglio o dormisse. Da lì a poco sarebbe entrato nel nido. 
Accogliere i bambini alla mattina non è facile. Perché significa accogliere loro, che sono in uno stato d’animo, e accogliere i loro genitori, che spesso hanno un altro stato d’animo determinato dal distacco, dalla fretta, dalla distrazione o dal senso di colpa. O da tutte queste emozioni insieme. Stessa scena si ripete all’uscita: magari il genitore ha fretta e il bambino vuole condividere ancora un po’ di tempo con lui in quel luogo. E testimone e regolatore di questo passaggio, l’educatore viene richiamato a sentire com’è difficile e bello salutarsi.
Investirà per tre anni su quel bambino e dovrà imparare a volergli bene, perché non si sta in relazione senza voler bene. Sapendo che finirà. Siamo abituati a pensare che se una relazione va bene durerà per sempre. Per un educatore non è così. C’è una fine cronologica e un saluto orario. Ogni giorno.
Che grande pratica può essere la consapevolezza di questo saluto. Una pratica che ci aiuta a mettere la parola “va bene così” ogni giorno. Posso volerti bene anche se ci saluteremo prima o poi. Vado a casa sapendo che domani si ricomincia e che domani sarà nuovo e, nello stesso tempo nascerà da quello che c’è stato ieri, insieme.


Alla fine la consapevolezza è lo strumento dell’educazione
Alla fine, bisogna dire la verità, quando un educatore entra al nido non ci sono ricette che funzionano sempre. Quello che aiuta, nell’educazione e nelle relazioni con grandi e piccini, è la consapevolezza di ciò che facciamo, dell’intenzione con cui lo facciamo e dei bisogni nostri e dei bambini. Come dire che possiamo dare una bussola, ma la navigazione non ha una mappa già scritta.
Ecco perché è così importante riflettere sui temi educativi: perché la riflessione è la bussola che ci aiuta a rispondere e non a reagire. È lo strumento che ci permette di gustare il sapore del buono che facciamo. Perché se chiudiamo ogni giornata avendo assaporato il piacere della connessione con i bambini, il giorno dopo sarà più facile toglierci di nuovo la giacca, per navigare a vista nella relazione con loro e aumentare i momenti di connessione possibile, che sono quelli in cui facciamo quello che è necessario fare e, nello stesso tempo, proviamo il piacere che c’è nello scambio intimo e profondo con un bambino.


Nicoletta Cinotti, pedagogista e psicologa psicoterapeuta 

(articolo uscito su Educare03, n. 4, 2017)






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