Donald W. Winnicott, sosteneva che “crescere è, di per sé, un atto aggressivo”. Osserviamo un bambino muoversi con prontezza verso un giocattolo. Lo scopriamo deciso nell’afferrarlo e nel portarlo a sé, eccitato dalla possibilità di utilizzarlo, attento e combattivo quando qualcuno prova a portarglielo via.
Questa energia emotiva accompagna molti momenti della vita del bambino (specie intorno ai due anni), così come degli adulti. Ciò che spesso caratterizza un comportamento aggressivo è la competizione o, meglio, la voglia di “vincere” che si può manifestare, per esempio, nel desiderio di dominare o allontanare rivali, ma anche nella volontà di fuggire da situazioni spiacevoli o pericolose, di colpire e distruggere ciò che si percepisce come dannoso o minaccioso.
La crescita è scandita da diverse tappe evolutive, prove e ostacoli che il piccolo deve affrontare e superare per conquistare l’età adulta. Durante queste fasi, sono molte le esperienze evolutive che alimentano la “stizza” e la collera dei bambini: alcune appaiono così lontane dalla “mentalità” e dalla coscienza degli adulti da costituire momenti di vera e propria rottura e incomunicabilità tra i due mondi. Per esempio, un bambino, di circa due anni, può rifiutare con teatrale disprezzo il giocattolo regalatogli, per poi “rubarlo” appena l’adulto abbia distolto lo sguardo.
La “fase del no” esplode intorno ai due anni, quando il bambino ricerca una propria individualità. In questo periodo il “no” serve al piccolo per rafforzare la sua posizione e per differenziare il proprio “io” da quello degli altri.
Quando il bambino inizia a esplorare e padroneggiare l’ambiente che lo circonda, mamma e papà sono costretti a moltiplicare attenzioni ed energie per far fronte all’esuberante bisogno di conquista e di espansione. Possiamo considerare certe reazioni aggressive dei bambini anche come un tentativo di esplorare i rapporti con gli altri. A volte, infatti, pugni, schiaffi, lanci di oggetti, crisi di rabbia rappresentano un modo per comprendere e valutare le relazioni e verificare l’effetto che questi comportamenti sortiscono sulle persone intorno e sull’ambiente. In questa fase, come suggerisce Bruno Bettelheim, i nostri “no” sono necessari quanto i “sì”. C’è modo e modo, però, di dire “no”: la negazione dovrebbe essere espressa con voce ferma e rispetto, evitando atteggiamenti che possono umiliare e ferire il bambino.
I “no”, quando sono giustificati, comprensibili e significativi, sono utili alla crescita e alla socializzazione: una volta interiorizzati, diventano regole generali che guideranno, come una “bussola”, il suo comportamento futuro.
I “no” dettati dall’ansia e dall’iperprotettività del genitore possono risultare, al bambino, vere e proprie punizioni, severe censure alle sue esplorazioni e scoperte. Quest’atteggiamento, se protratto, inibisce o interrompe processi intellettivi, cognitivi ed emotivi fondamentali per la crescita e suscita nel bambino rabbia e paura nei confronti dell’adulto percepito come “soffocante”.
Bisogna ricordare che la crescita è sempre un’esperienza di ricerca, anche per il genitore, che si affida alla sua capacità di mettersi in discussione per amore!
di Maria Rita Parsi
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