Questione da donna lavorare nei nidi? In Italia la figura maschile è praticamente assente nei servizi per l’infanzia, mentre viaggiando nei servizi di altri Paesi ciò non avviene, con punte di eccellenza in fase di “parità numerica”. Una questione sociale o una scelta ben precisa? Viaggiando nei servizi dei Paesi esteri, oltre a notare le differenze culturali e sociali più evidenti, ci accorgiamo che la presenza maschile nello staff educativo è molto forte, sfiorando in alcuni casi anche la parità con quella femminile (specialmente a Berlino).
Uomini, ragazzi, che hanno deciso di investire il loro tempo, di dedicare la loro professionalità al mondo dell’infanzia, trovando un contesto pronto ad accoglierli e a trattarli alla stregua del corrispettivo femminile. Guardando il tutto con occhio maschile la cosa colpisce ancor di più, se poi entriamo nel merito più stretto della professione capiamo quanto questo passo sia necessario e utile, soprattutto alla crescita dei bambini. La realtà al contrario ci racconta che, dopo un primo momento misto, la vita di un bambino diventa femminocentrica, soprattutto nei servizi per l’infanzia. Dal nido d’infanzia in poi, il bambino giunge fin al termine degli studi accompagnato quasi esclusivamente da figure femminili, che sono pressoché esclusive nell’oramai celeberrimo 0-6. È indiscutibile, infatti, che fatichiamo a trovare una figura maschile quale educatore o coordinatore pedagogico.
Perché avviene questo fenomeno nella realtà italiana? Se proviamo a domandare a chi opera nel settore, spesso vi risponde attraverso una serie di luoghi comuni, alimentati dagli uomini stessi nel corso dei decenni, ma che oggi risultano alquanto superati e infondati. La risposta classica è che gli uomini non vogliono fare quel lavoro, che questo lavoro è più adatto a una donna, che le donne hanno uno spiccato senso materno e così via. Tutti elementi che potevano ricalcare la società maschilista dei decenni passati, ma che oggi non hanno un benché minimo riscontro. Si riscontra ancora una marcata resistenza da parte dell’ambiente ad accogliere queste figure, professionalmente e umanamente preparate e in grado, cosa necessaria, di portare il tocco maschile in un ambiente “troppo femminile”, che rischia di ripiegarsi su se stesso. Avviene né più né meno, ciò che accade negli ambienti di lavoro maschili, con le stesse conseguenze e con le stesse storture e con l’utenza che ne paga le conseguenze.
Un buon educatore non ha sesso, ha solo capacità innate e acquisite che gli permettono di essere tale. Un uomo che ha fatto una determinata scelta è in grado di cambiare un pannolino, di prendere per mano un bambino, di accompagnarlo nella crescita e di dialogare con i familiari e le istituzioni. Allo stesso modo una donna che deciso di fare la manager, avrà le stesse capacità e magari anche qualcuna di più, di un uomo che fa lo stesso lavoro.
La figura maschile e femminile sono importanti nella crescita dei bambini: avere, sin da piccoli, soprattutto nei servizi per l’infanzia la possibilità di relazionarsi con entrambe non è solo un auspicio, ma una necessità reale.
Enea Nottoli, coordinatore pedagogico
Leggi l’articolo completo sul n. 3 di Educare03 (2017) e l’intervista a Vimille, educatore uomo a Perugia in un mondo di donne!