Riflettiamo su questo paragrafo del libro di Miguel Benasayag (2015, pp. 21-23, “Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa”), dal significativo titolo “La tua sofferenza non ha senso”. Non è un brano semplice, ma lasciamo interrogare i nostri cuori da queste parole.
Un caso esemplare è quello dei bambini cosiddetti “iperattivi”, curati innanzitutto con il Ritalin. Un tempo definiti “turbolenti”, questi bambini potevano esserlo per diverse ragioni, non si pretendeva di spiegare il loro comportamento con “a + b”. Essere turbolento era considerato come un modo particolare di essere al mondo, sicuramente passeggero, con il quale occorreva venire a patti. Ma da quando il riduzionismo fisicalista ha creduto di aver trovato la “causa” dell’iperattività – un deficit nella produzione della dopamina –, il modo di essere nella sua molteplicità conflittuale è scomparso a favore di una concezione lineare semplificatrice. Una volta posta l’etichetta, si è creduto di sapere tutto sul bambino.
Il fenomeno in questione rimanda alla medicalizzazione della vita. Medicalizzare la vita è agire come se modelli completi e coerenti potessero assumere i funzionamenti intricati e complessi della vita. L’inscrizione della sofferenza in un modo di essere lascia allora il posto a una comprensione del vivente in termini di patologia/e. In questa prospettiva, siamo spinti a soffrire non solo del male che ci affligge, ma anche dell’inammissibilità di quel male inteso come un elemento della nostra vita. Il malato è assimilato a una sorta di deviante sociale. La norma diventa un diktat imperioso: se siete obesi o anoressiche, malate di cuore o diabetici, o soffrite di una malattia psichica, questo diventa un affare che riguarda i tecnici della salute, quelli che possiedono la griglia di valutazione della norma, e non avete che da essere un “beneficiario delle cure”, passivo e obbediente. Questo modo di intendere la sofferenza la raddoppia imponendo una passività spesso dolorosa. La sofferenza non ha nulla a che vedere con voi. Il vostro corpo – o il vostro cervello – ha seguito una strada deviata: è inutile cercare un senso a tale deviazione, non dovete far altro che lasciarvi portare sulla retta via dalle tecniche e dalle molecole ad hoc.
Ora, questa de-soggettivizzazione della sofferenza, spogliata di ogni senso, implica una perdita di cultura. Che poeta avrebbe perso l’umanità se delle molecole ben selezionate avessero fatto di Antonin Artaud un ligio impiegato a uno sportello! Artaud ha sofferto, enormemente; ma la sua sofferenza è inseparabile da quella creatrice e immortale. Lui non subisce la sua follia, ma la trasforma a difesa di sé in un “trampolino” della sua potenza. All’opposto, il riduzionismo fa in modo che tutto nelle nostre vite venga inquadrato in una serie di attività, più o meno sane, più o meno terapeutiche. Io non faccio teatro, non suono uno strumento se non “perché…”: se faccio teatro è perché mi rilassa, mi toglie delle angosce… Non nuoto per il piacere di farlo, ma per evitare il mal di schiena… Cerco di formare una coppia per interesse o a fini terapeutici… Perfino il riso, che Aristotele considerava come tratto specifico dell’essere umano, è diventato un’attività terapeutica!
Si potrebbe sintetizzare in questo modo: la sofferenza esistenziale è oggi colonizzata dalla sofferenza patologica. Chiamo “sofferenza esistenziale” il modo in cui l’umano sperimenta il fatto di essere limitato: limitato come individuo, come gruppo, come specie vivente. Anche se è controintuitivo, i limiti sono essenziali alla vita, la condizione per quella “stabilità lontana dall’equilibrio” che la caratterizza; è la ragione per cui morte, malattia, impotenza, sofferenza, lungi dal rappresentare un insieme di debolezze, sono parte integrante di quella dinamica di fragilità senza la quale non ci potrebbe essere vita, salute, gioia. Ora il credo postmoderno, scientista ed economicista, si fonda sull’idea di una potenza che non conoscerebbe processi antagonisti e considera ogni limite come un’ingiustizia proveniente dall’esterno. Attraverso un immaginario più o meno fumoso, che mescola in un tritatutto ricerca genetica, cellule staminali, robotica, nanotecnologie ecc., non si smette di ripetere all’individuo postmoderno che “tutto è possibile” – dimenticando di menzionare la condizione: “Basta che tu obbedisca”. Non si prevede che io possa sperimentarmi limitato e vivente, ma solo che io soffra passivamente dei miei limiti come di altrettante patologie. Ciò che veniva considerata sofferenza “esistenziale” (sperimentarci potenti e limitati) diventa quindi problema tecnico, “sofferenza patologica”.