Visto dalla prospettiva del bambino, il conflitto dei propri genitori è molto simile a un terremoto che scuote dalle fondamenta il suo universo. La speranza che il figlio in tenera età coltiva è che, al cessare delle vibrazioni, permanga uno spazio per continuare ad esistere. Se un vaso si sarà rotto, se quel giocattolo non potrà più essere riparato, il dispiacere e il dolore saranno evidenti, ma la possibilità di ricostruire dei nuovi oggetti e di riempire ancora il proprio ambiente, personalizzandolo, renderà sopportabile la perdita e terrà lontano il senso di colpa.
Quando un bambino è spettatore del conflitto, della ferocia distruttrice del terremoto, ciò che si domanda è se potrà riedificare. Ricerca la speranza e desidera riconoscere la devastazione, condividerla, raccontarla con le proprie parole e vederla espressa attraverso le parole dei propri genitori. Mentre la catastrofe si consuma, spera di portare in salvo ciò che di prezioso lo lega ai genitori, senza scegliere cosa lasciare alla distruzione.
Se il terremoto è ignorato, quando il percepito non si trasforma in parole, il bambino considera l’accaduto come innominabile e non trova accesso all’esperienza della ricostruzione, sentendosi direttamente responsabile.
Osservare il conflitto tra i propri genitori, per un bambino non è dunque un male di per sé. E’ tuttavia possibile che questa faticosa esperienza divenga insostenibile per i figli. Può esserlo, per esempio, quando uno dei due attori lascia la scena senza concedere all’altro possibilità di replica. Lo è ancora quando le scosse sismiche trascinano via le parole, in conseguenza di una silenziosa preoccupazione di non trovare il modo “migliore” o quello “giusto” per raccontare ciò che risuona dentro.
Una mamma e un papà impacciati rispetto a un litigioso terremoto, che tuttavia decidono di mettersi in gioco e di raccontare ciò che sentono, genitori che provano a pronunciare delle parole pur apparentemente inadeguate, che prestano ascolto all’altro nel crollo delle macerie, che sostano nelle vibrazioni, che assistono all’infrangersi delle aspettative più segrete, che immaginano nuovi possibili scenari mentre la polvere, lentamente, si deposita; quei genitori consegnano ai propri figli la percezione, difficile e al tempo stesso educativa, che i terremoti possano sopraggiungere, che essi siano transitori e che i loro effetti, anche i più dolorosi, non siano un impedimento alla creazione di nuova bellezza.
Quando un bambino sente che il terremoto è nominato, quando osserva la mamma e il papà starci dentro, affrontarlo e gestirlo a proprio modo, esprimendo ciò di cui hanno bisogno, come anche i propri timori, esternando il desiderio di ricostruire, la delusione, la paura, l’ascolto per l’altro; egli avrà un’occasione di reagire costruttivamente alla perdita, di dare accoglienza al dolore, di rendersi soggetto di parola, portando in salvo il proprio desiderio ed esplorando nuovi possibili scenari dell’esperienza.
L’offerta ai figli di tali arricchenti prospettive, è talora una fatica che si rende sostenibile per i genitori grazie al contributo di risorse esterne, se le macerie ingombrano lo spazio vitale e la struttura domestica si presenta precaria e pericolante, necessitando di interventi e di opere strutturali. La mediazione familiare e i gruppi di parola costituiscono, in tale assetto riorganizzativo della vita domestica dopo il terremoto, possibilità per riprogettare e rifabbricare.
Per approfondire:
- Marzotto C. (a cura di) (205), Gruppi di parola per la cura dei legami familiari, Franco Angeli, Milano.
- Educare03, n. 5, pp.26-27
Mariarosa Rao (avvocato e mediatore familiare)