Io sono qua!
Non so perché, mi sono fermata su queste parole: “Io sono qua”…
È bello e importante quando qualcuno ci dice: “Io sono qua”.
È dirti che io per te ci sono, non sei solo, tu “conti” per me e puoi “far conto” su di me; che voglio fare per te in quella forma particolare che propriamente “non fa” (non mi metto a farti questo e quello, a tirarti di qua e di là…), ma semplicemente “essendoci”, con una presenza non invadente, ma attenta, accogliente… se, come, quando e quanto hai bisogno….
In ascolto.
Ascoltare è difficile. Ho anche letto da qualche parte:“Ci hanno dato due orecchie, ma una sola bocca, proprio perché ascoltassimo il doppio e parlassimo la metà.”
Penso che per un bambino sia bello e importante sentirsi dire: “Io sono qua”.
Per molto tempo l’ho detto soprattutto nella classica situazione del bambino, magari un po’ piccolo, che non frequenta da molto e, all’inizio, ha bisogno della tua prossimità fisica. Quando ti sposti nello spazio, spesso si allarma e allora cerchi di rassicurarlo e spiegargli: “Sono qui, anche se non ci stiamo proprio toccando, anche se mi sposto, ci sono, vedi? Senti la mia voce!”
Insomma, è una risposta al bambino in difficoltà, fragile, da coccolare.
Adesso ho cominciato a usarla anche in tutt’altra situazione, apparentemente opposta, col bambino che cerca di prevalere, si arrabbia, si innervosisce, grida contro al compagno, lo “picchia”, è agitato…Insomma, il bambino che, più che consolato e rassicurato, va calmato e arginato.
Questo bambino fa e dice, addirittura grida già così tanto da solo, che non è probabilmente necessaria un’altra voce: se aggiungiamo altra legna sul fuoco, il falò diventa un incendio. Meglio sedare con l’acqua che scorre tranquilla. Meglio disporsi a parlare la metà (anche come tono di voce) e ascoltare (accogliere, contenere) il doppio. Così, invece di urlare, lo fermo, gli dico che sta facendo male al compagno e che questo non si può proprio fare; ma gli dico anche: “Io sono qui”. Capisco che tu voglia giocare a fare la torre e lui ti abbia disturbato, che la cosa ti faccia arrabbiare, ma non puoi fargli del male… vieni da me… io, per te, ci sono.
Ho detto “io sono qui” anche a P.
P. ha iniziato a frequentare da ottobre, con un ambientamento piuttosto veloce. E’una bellissima bimba, in generale la sua presenza è silenziosa, parla poco, non si mette al centro, non è particolarmente vivace. Ma, dall’altra parte, che ci sia o meno cambia moltissimo le cose… Perché P., dopo qualche sporadico dispetto durante i primi giorni, ha iniziato a pizzicare e mordere i bambini; anzi, si relaziona con loro quasi esclusivamente in questo modo.
Morsi e pizzicotti “immotivati”, gratuiti, continui, imprevedibili e che, purtroppo, impariamo ad aspettarci, a temere, in qualsiasi momento….
È lì che gioca, poi si alza, passa vicino a un bambino e lo morde; andiamo in bagno a cambiarci, una bimba le cammina di fianco, senza dirle, farle, darle nulla e la morde; siamo seduti, stiamo cantando le canzoni e pizzica con forza il viso di quello che ha vicino. Lo fa un po’ con tutti, ma non ha mai osato con i due maschi del gruppo e, nel giro di pochi giorni, la cosa cade pressoché completamente con un paio di bambine, che – dopo più che il timore, direi la sorpresa e il disorientamento iniziali – le rispondono pan per focaccia; si attenua su altri, per concentrarsi su tre “bersagli” privilegiati, le tre bimbe un po’ più remissive.
Ci sono state giornate in cui, all’uscita, ho dovuto comunicare anche a 4 o 5 famiglie di un morso ricevuto dal figlio: per questi, andati a segno, ce n’erano almeno una quindicina di evitati. Non diciamo mai il nome di chi ha morso, ma i bambini grandi raccontano e i genitori ormai hanno capito di chi si tratta; a volte, durante le entrate, hanno anche visto.
Non è mai semplice riportare vicende di morsi. Alla fin fine per un bambino darti un morso è come darti uno spintone; per noi adulti il morso è molto più grave: lascia un bel segno, è davvero doloroso e ci sembra molto aggressivo, è qualcosa di arcaico, primitivo, “animale”. Di solito non vivo queste comunicazioni con ansia, né verso la vittima né verso“l’aggressore”, che a sua volta va tutelato, per evitare di diventare “quello che morde” agli occhi degli altri. Ma quando per cinque giorni di fila devi riportare almeno due morsi, oltre a qualche graffio e pizzicotto, ti senti più fragile e inquieta. Perché ti dispiace, perché ti senti in difetto, in colpa, anche se sai che, materialmente, non avresti proprio potuto impedirlo. Stavi lì, magari avevi un bambino in braccio, guardavate un libro, uno si avvicina col naso sporco, distogli un attimo lo sguardo per pulirlo esenti un grido di dolore… dal tuo grembo! P., sbucata in una frazione di secondo da chissà dove, morde proprio chi avevi in braccio… Non hai ancora finito di consolarlo, di massaggiare con l’arnica, di far chiedere scusa e raccomandare che “no, non si fa, fa male, i dentini solo per la pappa”, che di nuovo pizzica lo stesso bambino, ancora in braccio a te. Una cosa proprio inevitabile…
È accaduto sotto il mio naso… Io stavo lì…..ma c’ero? Ero davvero lì nel modo adeguato? Perché questa cosa accade e continua ad accadere? Non sono forse anche io che potrei fare di più, fare meglio, per gestirla, attenuarla?
Non puoi non farti certe domande. O, almeno, io non riesco a non farmele. Ok, P. ha questa dinamica, ma io cosa sto facendo? Non dovrei essere in grado di capire, di trovare qualche strategia? Non dovrei avere le risposte? Invece mi sento veramente impotente, non so cosa fare, provo a fare ipotesi.
Sostare nell’incertezza: qualcuno mi ha detto che in questa frase c’è l’essenza del nostro lavoro. Ma in questo momento tale incertezza non mi affascina per niente, anzi mi scoraggia. Oggi davanti a P. mi sento disarmata esattamente come lo sarei stata dieci anni fa, quando ho messo per la prima volta i piedi in un nido: possibile?! Non dovrebbe essere cambiato qualcosa?
Niente retorica, la criticità esiste; però non posso affibbiarla tutta a lei. Perché P. è piccola. Perché io sono la sua maestra, passa con me e i suoi compagni buona parte della giornata e io sono responsabile di lei come di tutti gli altri. Se un problema c’è, ci sono dentro fino al collo.
Mi sono chiesta cosa ci sia dietro questo modo di fare, cosa comunichi.
Credo di non aver mai imbastito così tanti girotondi come in quest’ultimo periodo. Sarà banale, ma mi sembra un modo veramente semplice, eppure molto immediato, per farla interagire diversamente con gli altri, per farla sentire accettata; lei partecipa volentieri, è contenta. Un giorno l’ho osservata con attenzione: mentre girava, la sua bocca era “inquieta”, a un certo punto stava per lanciarsi sulla mano della bimba cui era legata, ma è riuscita a fermarsi in tempo e ha finito col mordicchiarsi la maglietta. Mi viene da pensare che spesso quella bocca sia il ricettacolo e la valvola di sfogo delle sue emozioni, in questo caso positive, di eccitazione, gioia. Qualche volta i morsi e i pizzicotti sono stati degenerazioni di baci e carezze, di cui perde il controllo.
Girotondi su girotondi, per aiutare anche gli altri ad accettarla. Perché i bambini hanno cambiato atteggiamento nei suoi confronti.Qualcuno è effettivamente intimorito e cerca di evitarla, ma in generale le stanno tutti un po’ alla larga, non la cercano mai, sono poco disponibili, se non addirittura ostili.
Ovviamente questa chiusura da parte dei compagni, se da una parte è l’inevitabile effetto del suo modo di porsi, rischia dall’altra di accentuarlo, per la frustrazione che ne consegue. E non è positivo nemmeno lo stato di “vigilanza” a cui ci troviamo costrette: abbiamo bisogno di averla sempre sott’occhio, perderla di vista è rischioso, soprattutto se ci sono certi bambini nei suoi paraggi. Si è accorta che la teniamo d’occhio, perché a sua volta ci osserva e, appena nota che distogliamolo sguardo…
Devo darle fiducia, devo offrirle la possibilità di fare diversamente; ma devo anche difendere gli altri. Rischiamo tutti di perderci qualcosa.
A proposito di rischi, due settimane fa ho deciso di fare una cosa che poteva risultare molto azzardata; ma volevo provare, perché devo capire. Coccole e massaggi con la crema: chissà cosa sarebbe successo in una situazione così intima, in cui i bambini sono strettamente a contatto e parzialmente spogliati. Beh, a parte che è stata in generale un momento meraviglioso e credo davvero di non aver mai riscontrato un tale livello di coinvolgimento e vicinanza durante questa esperienza; ma P. era serena, rilassata; più che farsi coccolare, ha preferito farlo, toccando gli altri con cura e delicatezza. Sorpresa parziale, perché ero convinta che non ci sarebbero state mezze misure, o successo o“strage”.
Qualche giorno dopo, altra mattinata difficile… Intorno alle 11 accompagno io i bimbi in bagno, prima del pranzo, due-tre alla volta; quando torno in salone a chiamare P. manca soltanto lei, trovo la mia collega, che dice: “Maestra Greta, hai visto dov’è P.? Le ho detto di sedersi, perché… glielo diciamo P.? Eh, perché non giocavo, facevo male agli altri! Un altro morso, altri due evitati, tiro i capelli e la faccia… in neanche dieci minuti, di tutto e di più!!!”. Faccio un bel respiro e la chiamo: “P. andiamo a cambiarci”.
Siamo in bagno, da sole. Può essere un’opportunità per parlare un pochino, con calma. Potrei tornare su quello che è appena successo, che sta succedendo, ascoltare cosa mi racconta, magari mi può aiutare a capire… Invece, faccio tutt’altro! Beh, non proprio tutt’altro, perché parliamo sì, e con calma, tanta calma; decido di non tornare assolutamente su quanto accaduto, chiacchieriamo di tutt’altro: il nonno che verrà oggi, il suo cagnolone…
In quel momento, in cui fra l’altro potevo permettermi di non essere sul chi va là, mi è sembrato importante e giusto andare oltre, evitare di centrare ancora una volta il confronto con P. sul suo comportamento, rimandarle che lei non è solo questo e, soprattutto, che non la prendo in considerazione solo per questo. Una difficoltà che, comunque, c’è. Tuttavia P. e il rapporto con lei non devono ridursi a essa. E se non sono io, che sono adulta, che per prima cerco di andare oltre, lei non potrà mai farlo.
Sono stati minuti piacevoli, ho avuto l’impressione diessermi avvicinata per la prima volta a lei; alla fine ci siamo sorrise e, guardandola negli occhi, le hodetto la frase fatidica: “P., per te io ci sono”.
L'articolo di Greta Carubelli è comparso su Educare05, n. 5 (maggio/giugno 2016).