Una delle più affascinanti scoperte degli ultimi anni riguarda la storia di due topi. Si tratta di due topi di una specie particolare, nota per essere stati la prima specie di topo “domestico”, che hanno un manto di colore giallo, un elevato rischio di diventare obesi in età adulta e di incorrere in patologie del sistema cardiovascolare. Questo è dovuto a uno specifico gene, definito Agouti, che è posseduto da questa specie e non da altre (Cropley et al., 2010). Ebbene, una famosa ricerca ha documentato che il colore del manto, così come il rischio di obesità e di cardiopatie, può essere modificato tramite alterazioni della dieta materna, durante il periodo di gestazione (Wolff et al., 1998).
Se la madre dei topini durante la gravidanza assume una ricca dieta proteica contenente acido folico vitamina B12, i topolini hanno un manto più scuro e il rischio di sviluppare patologie cardiache è altamente ridotto. Come è possibile? La dieta sembrerebbe influenzare in qualche modo l’attività del gene Agouti attraverso una serie di meccanismi biochimici definiti “epigenetici” (ovvero, sopra o oltre la genetica). La dieta influenza il funzionamento del gene perché, tramite questi processi, è come se l’attività del gene venisse spenta; si potrebbe dire che agisce sul gene come un interruttore chimico.
Ciò che è davvero interessante è che lo spegnimento di questo interruttore non è programmato geneticamente, anzi è attivato da una modificazione dell’ambiente, in questo caso la dieta materna nel corso della gravidanza, che ha la capacità di modificare quello che è inscritto nel gene dei topini. Ma cosa c’entra tutto questo con i bambini?
Prima di tutto può essere utile definire cosa si intende per epigenetica.
Si tratta di una serie di processi biomolecolari che riguardano la regolazione del funzionamento dei geni. I geni, infatti, svolgono una funzione molto importante per l’organismo, poiché contengono specifiche informazioni per la codifica e la produzione delle proteine. Ogni proteina è codificata e prodotta da un gene specifico. Questa funziona si chiama “trascrizione” ed è regolata da diversi fattori. Alcuni di questi fattori sono di natura epigenetica e sono proprio simili al funzionamento di un interruttore, portando all'accensione o allo spegnimento della funzione di trascrizione. In altre parole, di comportamenti problematici, tra cui una ridotta esplorazione degli ambienti nuovi, una generale passività comportamentale, una minore ricerca della relazione con i pari e un’aumentata sensibilità allo stress.
Ancora più interessante, dal punto di vista degli operatori clinici in ambito evolutivo, è che quest’alterazione epigenetica poteva essere ripristinata se i topini venivano adottati da madri che mostravano un’alta frequenza di comportamenti accuditivi (Champagne, Curley, 2009). In altre parole, sembrerebbe che l’epigenetica possa essere il modo in cui il nostro corpo “ricorda” le esperienze precoci di vita, siano esse stressanti o protettive.
Epigenetica e sviluppo umano a rischio
Ora probabilmente vi starete chiedendo se queste modificazioni epigenetiche agiscono anche nell'uomo. Ebbene sì. L’area di ricerca che si occupa di studiare questi processi nell'uomo prende il nome di epigenetica comportamentale. Alcuni studi si sono concentrati sulle conseguenze di eventi traumatici come abuso, maltrattamento e trascuratezza. Tali ricerche hanno mostrato che queste esperienze sono in grado di “silenziare” la funzione di trascrizione di specifici geni che producono proteine e ormoni fondamentali per il nostro funzionamento socio-emozionale e la nostra capacità di regolare lo stress. Bambini esposti a trauma e abuso durante la prima infanzia mostrano un aumentato rischio di sviluppare disturbi affettivi e comportamentali durante l’età scolastica, l’adolescenza e disturbi di personalità in età adulta. Queste conseguenze appaiono essere, almeno in parte, spiegate da modificazioni epigenetiche, ovvero dal fatto che in qualche modo i geni deputati alla regolazione dello stress vengano “spenti” in conseguenza di precoci esperienze avverse (Beach et al., 2010; 2011).
Un altro esempio di come le alterazioni del nostro ambiente di vita relazionale possono influenzare il successivo sviluppo socio-emozionale tramite meccanismi epigenetici riguarda la nascita pretermine (Montirosso, Provenzi, 2015).
I bambini nati pretermine, specialmente se sotto la trentaduesima settimana di gestazione, vengono ricoverati per periodi che possono variare da settimane a pochi mesi all'interno della terapia intensiva neonatale, dove sono esposti a numerosi interventi invasivi e dolorosi e le possibilità di essere in contatto fisico e relazionale con la madre sono molto ridotte. Si è recentemente dimostrato che, alla dimissione, in questi bambini il numero di interventi dolorosi a cui sono stati sottoposti durante il ricovero si associava alla probabilità che uno dei geni responsabili della regolazione dello stress fosse spento (Provenzi et al., 2015). Lo spegnimento di questo interruttore collegato alla risposta allo stress era inoltre associato, tre mesi dopo la dimissione, a minore attenzione sostenuta, ridotto approccio verso oggetti nuovi nell'ambiente e difficoltà nella regolazione dello stress.
E nei contesti educativi?
L’epigenetica comportamentale umana sta aiutandoci a capire come le precoci esperienze avverse possano “finire sotto pelle”, attraverso modifiche della funzione di trascrizione dei geni, alterando cioè la disponibilità di specifiche proteine utili alla regolazione dello stress e al funzionamento socio-emozionale.
Se da un lato si tratta di scoperte affascinati e di notevole valore scientifico, ci si può chiedere quale sia la loro ricaduta operativa. Qui vorrei sottolineare tre specifiche implicazioni di questo ambito emergente di ricerca all'interfaccia tra psicologia, biologia e genetica.
Per prima cosa, queste ricerche ci ricordano quanto sia importante il ruolo dell’ambiente di vita. Non tutto è scritto nella genetica e il contesto relazionale in cui ci troviamo vivere fin dalle prime fasi della vita incide, nel bene e nel male, sul nostro sviluppo socio-emozionale.
L’epigenetica, infatti, consiste nelle modalità con cui il corpo immagazzina e “ricorda” le esperienze precoci. Tali “ricordi” biologici costituiscono, quindi, apprendimenti che guideranno il bambino a muoversi nel proprio ambiente e a far fronte agli eventi stressanti che incontrerà nella sua vita. Inoltre, questa aumentata consapevolezza del ruolo dei fattori biologici – epigenetici in questo caso – credo sia qualcosa che debba far parte del bagaglio di conoscenze con cui ci avviciniamo ai piccoli che si trovano a vivere condizioni di rischio evolutivo, perché ha il vantaggio di mantenere viva la nostra attenzione sulla possibilità che esiti di sviluppo avverso possano agire anche con modalità non immediatamente visibili e riconoscibili nel comportamento manifesto.
Inoltre, ogni volta che interagiamo con un bambino, abbiamo, insieme a lui/lei, la possibilità di creare nuovi “ricordi” biologici che guideranno ulteriormente il suo sviluppo e la sua capacità di far fronte allo stress. Infine, epigenetica significa anche mantenere una prospettiva complessa sullo sviluppo umano (Provenzi, Montirosso, 2015).
Con il progresso in campo scientifico è sempre più evidente che le differenze individuali sul piano comportamentale, affettivo, psicologico e le diverse traiettorie di sviluppo non possano essere l’esito lineare e scontato di pochi eventi puntuali nella prima infanzia. L’epigenetica risponde, in parte, al quesito relativo al “cosa se ne fa un bambino delle sue esperienze” e potrà aiutarci, nei prossimi anni, a fare luce sui meccanismi che conducono a una maggiore o minore resilienza o sensibilità agli eventi stressanti a cui siamo esposti durante la nostra crescita.
Livio Provenzi
Centro 0-3 per il bambino a rischio evolutivo, IRCCS Eugenio Medea, Bosisio Parini (LC)
Articolo comparso su Educare03, n. 5, 2016.