La maggioranza dei bambini attraversa i primi anni di vita senza manifestare particolari disagi emozionali. Ci sono naturalmente dei periodi in cui alcuni possono presentare dei comportamenti che sono indice di difficoltà. Possono apparire più irrequieti, più ritirati o semplicemente manifestare condotte che si discostano dal loro abituale modo di comportarsi. In genere si tratta di situazioni transitorie ricollegabili all'acquisizione di compiti evolutivi, soprattutto in riferimento alla dimensione dell’autocontrollo, come la necessità di tollerare maggiormente una frustrazione. Altre volte si tratta di espressioni che rimandano a situazioni di stress vissute dal bambino: la nascita di un fratello, l’aumento della conflittualità con qualche compagno e così via.
Tuttavia non è sempre così immediato collocare alcune condotte del bambino nella sfera delle “fluttuazioni” osservabili nel corso dello sviluppo. Per esempio, per un bambino di due anni e mezzo, quanto un comportamento oppositivo è parte di un repertorio atteso e quanto espressione di un malessere più significativo? Ci si può quindi ritrovare in situazioni di confine in cui le manifestazioni del bambino sfumano tra la cosiddetta “normalità” e difficoltà emotivo comportamentali più marcate.
Tali situazioni di confine sono delicate perché implicano almeno due rischi:
- sottostimare o sovrastimare le problematiche comportamentali del bambino;
- incorrere in falsi positivi/negativi: bambini che presentano difficoltà poi non sviluppano problemi rilevanti e bambini che inizialmente non destano preoccupazioni possono successivamente presentare dei disagi significativi.
È chiaro che nel corso della propria vita professionale un’educatrice avrà a che fare con molti bambini che possono collocarsi sul “confine” e anche oltre, dato che dal 2% al 8% dei bambini tra i 2 e i 5 anni presenta significative difficoltà emotivo-comportamentali (Egger, Angold, 2006). Quali che siano i motivi di un disagio, ci possono essere delle remore nel considerare le implicazioni di questi comportamenti, magari perché si ritiene che “con il tempo passeranno”. Tuttavia queste manifestazioni, se non vengono identificate in tempo o non ricevono interventi appropriati, tendono a persistere. Altre volte ci può essere l’idea che riconoscere delle difficoltà comportamentali significhi solo “patologizzare” il bambino. Infine, non è raro che le educatrici siano convinte di non avere il ruolo appropriato o le competenze per individuare il malessere espresso dal bambino. In realtà, non si tratta di cimentarsi in valutazioni specialistiche, quanto piuttosto essere pronti a cogliere dei segnali che consentano una riflessione condivisa con i colleghi e la famiglia.
Quali elementi di osservazione del bambino può mettere in campo l’educatrice per distinguere tra problematiche transitorie e difficoltà più marcate?
Un punto di partenza è l’ovvia considerazione che i comportamenti difficili hanno degli scopi, i quali possono e devono essere compresi, poiché equivalgono ad atti di comunicazione che veicolano significati emozionali rilevanti per il bambino. In genere, dietro ogni comportamento difficile c’è del dolore. Quindi, in prima istanza, per cogliere questa sofferenza emotiva, andando oltre la tangibilità della condotta, è necessario uno spazio mentale che permetta di interrogarsi sulle ragioni del bambino.
Su un piano più prettamente osservativo, al di là della frequenza e della durata con cui compare un dato comportamento, si possono invece tenere presenti alcune indicazioni (Wakschlag et al., 2007). Un primo elemento da considerare è il grado d’intensità di un comportamento. L’intensità deve essere valutata non solo rispetto a condotte manifestamente visibili, ma anche nel caso di una forte limitazione dei comportamenti emozionali (per esempio, forme di inibizione). Un secondo elemento è la flessibilità del comportamento del bambino, che riguarda la modulazione e la responsività rispetto alle richieste dell’ambiente e situazioni di natura emotiva. La flessibilità include certamente anche la capacità e i tempi con cui il bambino recupera da stati emozionali negativi. Infine la pervasività, ovvero quanto il comportamento problematico del bambino è traversale a diversi contesti di vita quotidiana (scuola, casa, ecc.) e/o all'interno di diverse relazioni interpersonali (Dunlap et al., 2006). Accanto ad altre considerazioni sulla specificità del comportamento (per esempio, se l’aggressività viene espressa attraverso dei morsi piuttosto che lanciando oggetti), un’analisi sulla convergenza di questi elementi dovrebbe consentire la possibilità di avviare una riflessione sull'eventuale disagio di cui è portatore il bambino.
Per esemplificare, nel caso di un bambino di tre anni è possibile considerare che un certo grado di disubbidienza sia espressione della ricerca di autonomia. Tuttavia, diventa segnale di qualcos’altro se il rifiuto di ubbidire è portato avanti con marcata insistenza (intensità), è esteso a tutti i contesti e a tutte le relazioni sociali (pervasività) ed è scarsamente modificabile anche dopo diverse sollecitazioni dell’adulto (flessibilità). L’osservazione di questi elementi dovrebbe tuttavia tener conto di una serie di cautele. In primo luogo, è fondamentale avviare un confronto e una collaborazione con i genitori. Senza un’alleanza e una condivisone con i genitori si rischia di non poter utilizzare quanto emerge dalle osservazioni sui comportamenti del bambino. Secondo, è necessaria un’attenta contestualizzazione delle manifestazioni del bambino che consenta di analizzare gli antecedenti e i fattori scatenanti dei comportamenti problematici. Terzo, va da sé che un solo comportamento, per quanto disfunzionale, non può essere considerato indicativo di problematiche più ampie. A questo punto, dopo un’attenta considerazione con il team educativo e la famiglia, si possono prendere in considerazione una serie di possibili interventi educativi mirati ed eventualmente la possibilità di un approfondimento specialistico. È indubbio che i bambini possano presentare comportamenti difficili che si collocano su una linea di confine non sempre ben definita. Ma non sempre è facile o possibile cogliere con immediatezza il senso di sofferenza che veicolano.Tuttavia, anche quando non siamo in grado di comprenderli, è sempre possibile ricordare a noi stessi che i comportamenti difficili sono il modo con cui i bambini tentano di “difendersi” da piccoli e grandi dolori, che fin da subito hanno dovuto imparare a fronteggiare.
Articolo completo comparso su Educare03, 2015, n. 1.